Le simboliche pitture ‘sognanti’ di Erni Kwast
Giampaolo Trotta
Ebbi modo di conoscere per la prima volta le opere pittoriche di Erni Kwast alla Biennale d’Arte di Firenze nel 2007 e venni immediatamente colpito dalla vigorosa sintesi delle sue figure e dalla delicata tavolozza dei suoi colori. Le immagini femminili sono schematizzate al massimo, rese nell’accentuazione delle forme rotondeggianti e carnose, vedute tergalmente o di tre quarti, con i capelli che ricoprono il volto, senza specifici lineamenti (non sono rappresentati mai occhi, naso o bocca).
Questa pittura, per campi cromatici essenziali, rimanda ad un fare quasi scultoreo ed immediatamente vengono in mente opere di Marino Marini (da lei molto amato) e di Fernando Botero. Con quest’ultimo, però, la similitudine è più apparente che reale. Se, infatti, per Botero, come per la Kwast, l’atto pittorico deve essere inteso come una necessità interiore (‘l’arte è una tregua spirituale e immateriale dalle difficoltà della vita’ sostiene frequentemente l’artista colombiano), un bisogno che conduce verso una ricerca continua verso l’ideale, il colore nella pittrice olandese rimane tenue, mai esaltato, mai febbrile. Caratteristica della pittura di Botero è l’insolita dilatazione che subiscono i suoi soggetti, che acquistano forme quasi irreali, mentre nei quadri della Kwast le forme astrattamente corpulente delle sue donne non sono mai irreali, ma idealizzate come ‘sicure’ veneri preistoriche, come morbide e rassicuranti immagini di un libro di fiabe. Botero, inoltre, si rivela sostanzialmente distante dai suoi soggetti ed è proprio questa freddezza che fa scomparire dai personaggi la dimensione psicologica. Gli sguardi sono assenti, gli occhi non battono, sembra quasi che le figure vedano senza guardare. Il mondo florido e opulento di Fernando Botero, com’è stato osservato, rispecchia in modo grottesco e metaforico certe caratteristiche della società ‘ipertrofica’ contemporanea. Il dettaglio diventa la massima espressione e i grandi volumi rimangono indisturbati: i suoi personaggi non provano gioia né dolore, hanno lo sguardo perso nel vuoto e sono immobili, quasi fossero rappresentazioni di sculture senz’anima. Non così le donne di Erni Kwast: esse sono calde e coinvolgenti, tenere e materne come in un sogno; i loro sguardi (pur non rappresentati) ti avvolgono e ti rassicurano. Il particolare scompare per lasciare spazio esclusivamente ai morbidi volumi cromatici, sintesi e astrazione di un’idea. Ecco che allora vengono in mente le Quatre Baigneuses di Pablo Picasso (1921), ma anche certe opere del periodo bretone di Paul Gauguin e alcune stampe giapponesi: la deformazione ‘turgida’ della realtà enfatizza gli elementi carichi di significati simbolici, evidenziando una pittura più meditata, ma conservando dell’Impressionismo francese un uso meno incisivo del colore rispetto a Gauguin.
Per evitare di essere condizionata dagli effetti reali della luce impressionista, la Kwast non dipinge mai dal vero, ma semplifica le sensazioni ed elimina i particolari; di qui una forma, sintetica (‘sintetistica’ avrebbero detto agli inizi del secolo scorso), volutamente semplificata.
Lo scopo dell’arte per la nostra pittrice olandese, come già per i Simbolisti, non è la diretta rappresentazione delle cose, ma delle idee-archetipi che sono a monte, le uniche che siano veramente reali e delle quali le singole scene umane sono solamente ‘segni’. Ci viene in mente allora quello che già scrisse più di cento anni fa lo scrittore e critico d’arte francese George-Albert Aurier (1865-1892): ‘è logico che l’artista rifugga dall’analisi per non incorrere nei pericoli della verità concreta. Ogni particolare in realtà non è che un simbolo parziale molto spesso inutile in rapporto al significato totale dell’oggetto. Di conseguenza, stretto dovere del pittore ideista è effettuare una selezione naturale tra i molteplici elementi che compongono l’oggettività, non utilizzare nelle sue opere che le linee, le forme, i colori generali e distintivi che servono a esprimere chiaramente il significato ideico dell’oggetto, piuttosto che qualche simbolo parziale che avalla il simbolo generale’.
Così, anche per la Kwast, in un certo senso, l’arte è ‘ideista’, ‘simbolista’, ‘sintetica’, ‘soggettiva’ (poiché ogni figura rappresentata non sarà una figura ‘naturale’, cioè ripresa dal vero, ma un segno dell’idea percepita dal soggetto, vale a dire la pittrice) e ‘decorativa’.
Accanto alla matrice picassiana (almeno di quel Picasso cui si è accennato) e a quella francese (dall’uso postimpressionista del cromatismo ‘idealizzato’ di Cézanne e di Bonnard alla simbologia di Gauguin), databile alla fine dell’Otto e agli inizi del Novecento, si individuano alcune lontane reminiscenze anche dell’arte rinascimentale italiana e segnatamente delle atmosfere e delle figure luminose e staticamente rassicuranti di Piero della Francesca. Nel contempo, la modernissima semplificazione del paesaggio per fasce di colore prevalentemente orizzontali richiama la sintesi cromatica di Mark Rotko e la statuarietà delle sue donne, anche quando sono colte in movimenti di danza o di lavoro, si ispira alle sculture di Marino Marini (1901-1980; si pensi a Pomona, 1949, nella Pinacoteca di Brera), dell’olandese Charlotte van Pallandt (1898-1997; ad esempio Zittende met opgetrokken linkerknie, 1952) e del belga Rik Wouters (1882-1916; segnatamente La gioia di vivere, 1912, nel Museo all’aperto di Sart-Tilman).
Attiva con mostre ed esposizioni fin dal 1984, sia in Olanda che in Francia ed in Italia, con una solida preparazione accademica, Erni Kwast ci introduce nel suo ammaliante mondo figurativo lirico, fatto di atmosfere, di personaggi semplici e tratti dal quotidiano in paesaggi lineari e semplificati, che richiamano alla mente le verdi e fiorite pianure olandesi in primavera ed in estate. I movimenti delle figure, come si è detto per lo più girate non verso chi osserva l’opera, le trattengono in un loro mondo ‘favoloso’ ed ‘utopico’, rarefatto e diafano, atemporale e nostalgico eppure mai retorico.
I dodici quadri esposti al Museo Diocesano fiorentino, come sottolinea il titolo dato alla mostra (L’universo femminile fra pensiero e manualità), ci restituiscono un ‘semplice’ spaccato del mondo al femminile di Erni Kwast, ricco di poesia intimista..
Ecco, nei primi tre dipinti, le donne nei loro lavori manuali, connessi ai campi, ma vedute come in una sorta di sereno idillio fuori dal tempo, dalla fatica e dalle reali sofferenze. Il trittico delle donne nel simbolico vigneto della vita (quella veduta tergalmente di lata ascendenza cinquecentesca italiana nella postura, ma reinterpretata quasi come un D’après di Antonio Bueno) sono imperturbabili e gioiose ad un tempo, con i loro tini pieni del prezioso frutto e in mezzo a viti rese per calde macchie impressioniste delle foglie in autunno. La visione, come si è detto idilliaca, richiama alla mente alcune scene de Il profumo del mosto selvatico (A Walk in the Clouds), il noto film di Alfonso Arau del 1995, ambientato in una paradisiaca Contea di Napa (la Napa County), nello stato della California, e derivato da Quattro passi fra le nuvole di Alessandro Blasetti (1942). Accanto ad esse, altre tre pitture con donne che lavorano in un giardino, innaffiando le rigogliose piante fiorite, rese anch’esse per ‘macchie’ francesi di luminose rose primaverili. Tali quadri richiamano il mondo incantato di alcuni fotogrammi del film Ladies in Lavender del 2004, dove si vedono anziane signore intente a curare i loro variopinti giardini in un’idilliaca Cornovaglia prebellica. Parallelamente a queste, la Kwast, nella sua poliedrica attività, ha dipinto pure figure più tradizionalmente materne, con il bambino che le abbraccia e che si rifugia nel ‘porto’ sicuro.
Infine, le sei opere della seconda serie, con la donna nel suo ruolo maggiormente di ‘intellettuale’, nella sua attività culturale e spirituale, sola e meditabonda, mentre simbolicamente legge un libro, ma non in un ambiente interno, chiuso, bensì all’aperto, in contatto e in dialogo con la natura ed il mondo. Donne sdraiate sull’erba o sedute, dalle capigliature castano-fulve oppure con tondeggianti e turgidi cappellini, che si richiamano alla moda degli Anni Venti, gli anni nei quali si affermano con difficoltà le prime intellettuali femministe.
In ultima analisi, però, sono tutte figure dello stesso poliedrico universo femminile, i vari aspetti di un’unica complessa e pur ‘semplice’ realtà, forte e delicata: quella della donna, così come la Kwast ce la restituisce fra oggettività e sogno, in una rivisitazione modernissima ma, in un certo senso, postmoderna, al di là dei clamori e dei bagliori cui ci avevano abituato tanta arte e letteratura delle avanguardie dirompenti del Novecento, intrise di vibranti messaggi politico-sociali e psicologico-esistenziali.
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Giampaolo Trotta
Ebbi modo di conoscere per la prima volta le opere pittoriche di Erni Kwast alla Biennale d’Arte di Firenze nel 2007 e venni immediatamente colpito dalla vigorosa sintesi delle sue figure e dalla delicata tavolozza dei suoi colori. Le immagini femminili sono schematizzate al massimo, rese nell’accentuazione delle forme rotondeggianti e carnose, vedute tergalmente o di tre quarti, con i capelli che ricoprono il volto, senza specifici lineamenti (non sono rappresentati mai occhi, naso o bocca).
Questa pittura, per campi cromatici essenziali, rimanda ad un fare quasi scultoreo ed immediatamente vengono in mente opere di Marino Marini (da lei molto amato) e di Fernando Botero. Con quest’ultimo, però, la similitudine è più apparente che reale. Se, infatti, per Botero, come per la Kwast, l’atto pittorico deve essere inteso come una necessità interiore (‘l’arte è una tregua spirituale e immateriale dalle difficoltà della vita’ sostiene frequentemente l’artista colombiano), un bisogno che conduce verso una ricerca continua verso l’ideale, il colore nella pittrice olandese rimane tenue, mai esaltato, mai febbrile. Caratteristica della pittura di Botero è l’insolita dilatazione che subiscono i suoi soggetti, che acquistano forme quasi irreali, mentre nei quadri della Kwast le forme astrattamente corpulente delle sue donne non sono mai irreali, ma idealizzate come ‘sicure’ veneri preistoriche, come morbide e rassicuranti immagini di un libro di fiabe. Botero, inoltre, si rivela sostanzialmente distante dai suoi soggetti ed è proprio questa freddezza che fa scomparire dai personaggi la dimensione psicologica. Gli sguardi sono assenti, gli occhi non battono, sembra quasi che le figure vedano senza guardare. Il mondo florido e opulento di Fernando Botero, com’è stato osservato, rispecchia in modo grottesco e metaforico certe caratteristiche della società ‘ipertrofica’ contemporanea. Il dettaglio diventa la massima espressione e i grandi volumi rimangono indisturbati: i suoi personaggi non provano gioia né dolore, hanno lo sguardo perso nel vuoto e sono immobili, quasi fossero rappresentazioni di sculture senz’anima. Non così le donne di Erni Kwast: esse sono calde e coinvolgenti, tenere e materne come in un sogno; i loro sguardi (pur non rappresentati) ti avvolgono e ti rassicurano. Il particolare scompare per lasciare spazio esclusivamente ai morbidi volumi cromatici, sintesi e astrazione di un’idea. Ecco che allora vengono in mente le Quatre Baigneuses di Pablo Picasso (1921), ma anche certe opere del periodo bretone di Paul Gauguin e alcune stampe giapponesi: la deformazione ‘turgida’ della realtà enfatizza gli elementi carichi di significati simbolici, evidenziando una pittura più meditata, ma conservando dell’Impressionismo francese un uso meno incisivo del colore rispetto a Gauguin.
Per evitare di essere condizionata dagli effetti reali della luce impressionista, la Kwast non dipinge mai dal vero, ma semplifica le sensazioni ed elimina i particolari; di qui una forma, sintetica (‘sintetistica’ avrebbero detto agli inizi del secolo scorso), volutamente semplificata.
Lo scopo dell’arte per la nostra pittrice olandese, come già per i Simbolisti, non è la diretta rappresentazione delle cose, ma delle idee-archetipi che sono a monte, le uniche che siano veramente reali e delle quali le singole scene umane sono solamente ‘segni’. Ci viene in mente allora quello che già scrisse più di cento anni fa lo scrittore e critico d’arte francese George-Albert Aurier (1865-1892): ‘è logico che l’artista rifugga dall’analisi per non incorrere nei pericoli della verità concreta. Ogni particolare in realtà non è che un simbolo parziale molto spesso inutile in rapporto al significato totale dell’oggetto. Di conseguenza, stretto dovere del pittore ideista è effettuare una selezione naturale tra i molteplici elementi che compongono l’oggettività, non utilizzare nelle sue opere che le linee, le forme, i colori generali e distintivi che servono a esprimere chiaramente il significato ideico dell’oggetto, piuttosto che qualche simbolo parziale che avalla il simbolo generale’.
Così, anche per la Kwast, in un certo senso, l’arte è ‘ideista’, ‘simbolista’, ‘sintetica’, ‘soggettiva’ (poiché ogni figura rappresentata non sarà una figura ‘naturale’, cioè ripresa dal vero, ma un segno dell’idea percepita dal soggetto, vale a dire la pittrice) e ‘decorativa’.
Accanto alla matrice picassiana (almeno di quel Picasso cui si è accennato) e a quella francese (dall’uso postimpressionista del cromatismo ‘idealizzato’ di Cézanne e di Bonnard alla simbologia di Gauguin), databile alla fine dell’Otto e agli inizi del Novecento, si individuano alcune lontane reminiscenze anche dell’arte rinascimentale italiana e segnatamente delle atmosfere e delle figure luminose e staticamente rassicuranti di Piero della Francesca. Nel contempo, la modernissima semplificazione del paesaggio per fasce di colore prevalentemente orizzontali richiama la sintesi cromatica di Mark Rotko e la statuarietà delle sue donne, anche quando sono colte in movimenti di danza o di lavoro, si ispira alle sculture di Marino Marini (1901-1980; si pensi a Pomona, 1949, nella Pinacoteca di Brera), dell’olandese Charlotte van Pallandt (1898-1997; ad esempio Zittende met opgetrokken linkerknie, 1952) e del belga Rik Wouters (1882-1916; segnatamente La gioia di vivere, 1912, nel Museo all’aperto di Sart-Tilman).
Attiva con mostre ed esposizioni fin dal 1984, sia in Olanda che in Francia ed in Italia, con una solida preparazione accademica, Erni Kwast ci introduce nel suo ammaliante mondo figurativo lirico, fatto di atmosfere, di personaggi semplici e tratti dal quotidiano in paesaggi lineari e semplificati, che richiamano alla mente le verdi e fiorite pianure olandesi in primavera ed in estate. I movimenti delle figure, come si è detto per lo più girate non verso chi osserva l’opera, le trattengono in un loro mondo ‘favoloso’ ed ‘utopico’, rarefatto e diafano, atemporale e nostalgico eppure mai retorico.
I dodici quadri esposti al Museo Diocesano fiorentino, come sottolinea il titolo dato alla mostra (L’universo femminile fra pensiero e manualità), ci restituiscono un ‘semplice’ spaccato del mondo al femminile di Erni Kwast, ricco di poesia intimista..
Ecco, nei primi tre dipinti, le donne nei loro lavori manuali, connessi ai campi, ma vedute come in una sorta di sereno idillio fuori dal tempo, dalla fatica e dalle reali sofferenze. Il trittico delle donne nel simbolico vigneto della vita (quella veduta tergalmente di lata ascendenza cinquecentesca italiana nella postura, ma reinterpretata quasi come un D’après di Antonio Bueno) sono imperturbabili e gioiose ad un tempo, con i loro tini pieni del prezioso frutto e in mezzo a viti rese per calde macchie impressioniste delle foglie in autunno. La visione, come si è detto idilliaca, richiama alla mente alcune scene de Il profumo del mosto selvatico (A Walk in the Clouds), il noto film di Alfonso Arau del 1995, ambientato in una paradisiaca Contea di Napa (la Napa County), nello stato della California, e derivato da Quattro passi fra le nuvole di Alessandro Blasetti (1942). Accanto ad esse, altre tre pitture con donne che lavorano in un giardino, innaffiando le rigogliose piante fiorite, rese anch’esse per ‘macchie’ francesi di luminose rose primaverili. Tali quadri richiamano il mondo incantato di alcuni fotogrammi del film Ladies in Lavender del 2004, dove si vedono anziane signore intente a curare i loro variopinti giardini in un’idilliaca Cornovaglia prebellica. Parallelamente a queste, la Kwast, nella sua poliedrica attività, ha dipinto pure figure più tradizionalmente materne, con il bambino che le abbraccia e che si rifugia nel ‘porto’ sicuro.
Infine, le sei opere della seconda serie, con la donna nel suo ruolo maggiormente di ‘intellettuale’, nella sua attività culturale e spirituale, sola e meditabonda, mentre simbolicamente legge un libro, ma non in un ambiente interno, chiuso, bensì all’aperto, in contatto e in dialogo con la natura ed il mondo. Donne sdraiate sull’erba o sedute, dalle capigliature castano-fulve oppure con tondeggianti e turgidi cappellini, che si richiamano alla moda degli Anni Venti, gli anni nei quali si affermano con difficoltà le prime intellettuali femministe.
In ultima analisi, però, sono tutte figure dello stesso poliedrico universo femminile, i vari aspetti di un’unica complessa e pur ‘semplice’ realtà, forte e delicata: quella della donna, così come la Kwast ce la restituisce fra oggettività e sogno, in una rivisitazione modernissima ma, in un certo senso, postmoderna, al di là dei clamori e dei bagliori cui ci avevano abituato tanta arte e letteratura delle avanguardie dirompenti del Novecento, intrise di vibranti messaggi politico-sociali e psicologico-esistenziali.
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